Coronavirus: meno infarti, ma più dannosi? Un aiuto dalla RM cardiaca
6 Aprile 2020A partire dal primo focolaio sviluppatosi nella città cinese di Wuhan tra gli ultimi giorni del 2019 e l’inizio del 2020, l’esplosiva epidemia causata dal nuovo coronavirus SARS-CoV-2 ha progressivamente coinvolto e stravolto numerose nazioni del mondo. Nei mesi successivi il numero di persone con sintomi (prevalentemente respiratori) da COVID-19 è aumentato in maniera vertiginosa, con decine di migliaia di casi di gravità tale da richiede ricovero ospedaliero o, purtroppo, con esito fatale. Nelle stesse settimane, in tutte le nazioni maggiormente colpite dall’epidemia si è osservata una drastica riduzione degli accessi in pronto soccorso per infarto miocardico acuto. Non si dispone ancora di analisi dettagliate sulle possibili cause di questo fenomeno; probabilmente, hanno contribuito sia il timore da parte dei pazienti di poter essere contagiati recandosi in ospedale, che una minore efficienza delle reti sanitarie nei confronti delle altre emergenze mediche (compreso l’infarto).
Per quanto riguarda il numero di accessi in pronto soccorso per infarto, sia in Italia che in Spagna (due tra i Paesi maggiormente travolti dall’epidemia) le società scientifiche cardiologiche riportano una riduzione del 40-50% rispetto alla norma, mentre molti dei pazienti che hanno chiesto l’intervento medico lo hanno fatto con maggiore ritardo. L’infarto miocardico acuto è una patologia “tempo-dipendente“: per poter essere efficace nel limitare i danni al cuore e salvare la vita del paziente, la terapia appropriata deve essere iniziata nel più breve tempo possibile. Intervenire tardi o non intervenire affatto espone ad un maggiore rischio di morte o di avere conseguenze gravi in seguito all’infarto.
La RM cardiaca è la metodica diagnostica che meglio di qualunque altra consente di visualizzare in maniera non invasiva le modifiche nella funzione, struttura e composizione tissutale che si verificano a carico del muscolo cardiaco in seguito ad un infarto. L’esame può essere eseguito già nei primissimi giorni successivi ad un infarto, consentendo di riconoscere ad esempio la formazione di trombi dovuti al rallentato flusso ematico nel cuore ed eventuali elementi indicativi di un’evoluzione più sfavorevole. La porzione di cuore interessata dall’infarto può presentare segni di danno estremo, che vanno dal mancato apporto di sangue nonostante la riapertura della coronaria (cosiddetto “no-reflow”), alla dissezione parietale, fino a casi di rottura vera e propria della parete con passaggio di sangue nei tessuti circostanti. Queste informazioni sono ovviamente molto preziose nel consentire al cardiologo clinico di stimare il rischio di andare incontro ad aritmie, scompenso cardiaco ed altre complicanze e per la pianificazione della strategia gestionale più adeguata.